La tassa sugli extraprofitti a carico delle banche, introdotta dal governo con un decreto legge dello scorso 7 agosto, si appresta a produrre “gettito zero” per le casse dello Stato. La decisione del secondo gruppo bancario del Paese, Unicredit, che oggi ha annunciato di non voler pagare l’imposta, preferendo accantonare a riserve, come previsto dalla legge, un importo pari a 2,5 volte il teorico prelievo fiscale, spiana la strada a un comportamento che, salvo poche eccezioni, dovrebbe essere seguito dalla quasi totalità del settore bancario italiano. Lo sostiene il Centro studi di Unimpresa, secondo cui in particolare per le banche quotate sui listini di Borsa, l’opzione dell’accantonamento a riserva potrebbe essere una scelta sostanzialmente obbligata poiché il versamento dell’onere fiscale comporterebbe, per gli amministratori societari, rischi legali per potenziali ricorsi da parte degli azionisti. «Sul piano fiscale siamo di fronte a una norma sostanzialmente neutrale che non avrà alcun impatto tangibile sui bilanci bancari e sulle finanze pubbliche. Secondo quanto spiegato dal governo, le modifiche introdotte al decreto in sede di conversione, durante l’iter parlamentare, hanno come obiettivo di offrire alle banche una opzione rispetto al pagamento della tassa sugli extraprofitti ovvero un incremento della patrimonializzazione. Ciò con l’obiettivo di accrescere l’offerta di prestiti alle imprese e alle famiglie. Tuttavia, l’attuale restrizione del credito non è legata tanto agli attuali livelli dei coefficienti patrimoniali, quanto all’aumento del costo del denaro che ha cagionato un incremento dei tassi d’interesse e, più in generale, un brusco peggioramento delle condizioni di accesso ai finanziamenti bancari» commenta il consigliere nazionale di Unimpresa, Manlio La Duca.
Secondo il Centro studi di Unimpresa, le attuali previsioni di gettito, pari a 3 miliardi e 248 milioni di euro, ovvero la somma massima che lo Stato potrebbe teoricamente incassare dopo le modifiche alla imposta straordinaria introdotte con l’emendamento del governo al decreto “asset” (atto senato 854), sono solo teoriche. Tale importo considera, come limite di versamento, lo 0,26% dell’esposizione al rischio su base individuale: si tratta degli attivi ponderati al rischio ovvero Rwa (risk weighted asset). Per quantificare questa voce, la relazione tecnica all’emendamento fa riferimento a una stima calcolata prendendo in considerazione il capitale primario di classe 1 (Cet1) e il relativo coefficiente. Il governo stima che l’attivo ponderato sia circa il 38% dell’attivo complessivo ovvero un importo pari a 1.249 miliardi e lo 0,26% equivale a 3 miliardi e 248 milioni. L’introduzione della opzione per le banche – la possibilità di versare una somma pari a 2,5 volte la tassa al rafforzamento patrimoniale – rende pari a zero il gettito qualora tutti gli istituti di credito preferissero, come è probabile, evitare il pagamento della nuova tassa.
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