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Beccaria, e i libri proibiti. Il trattato “dei delitti e delle pene”

di Paolo Lecce

Il 15 marzo ricorre la nascita di Cesare Beccaria Bonesana, marchese di Garlasco e Villareggio.

Molti non lo conoscono se non di nome ma per noi Investigatori Privati come per molti Avvocati è una figura di grande valenza. In vita fu un economista, un filosofo e un letterato italiano, giudicato uno dei massimi esponenti dell’Illuminismo italiano, per l’esattezza fu la figura più di spicco della scuola illuminista milanese.

Andiamo ad approfondire questa figura.

Beccaria nacque a Milano nel 1738, da Giovanni Saverio di Francesco e di Maria Visconti di Saliceto, terza moglie del padre. Il 13 settembre 1738, dopo un’educazione gesuita avvenuta a Parma, si laureò in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Pavia. Nel 1760, Beccaria, sposò Teresa Blasco contro il volere del proprio padre che, per rabbia, lo obbligò a rinunciare ai diritti della primogenitura. Quasi tutti i figli di questo matrimonio nacquero con problemi o morti. Dopo la morte della moglie, Cesare Beccaria si risposò e da questa unione ebbe un altro figlio. Tutto questo influenzo moltissimo la sua esistenza.

Arriviamo, adesso, alle parti più importanti.

Cesare Beccaria si avvicinò al mondo illuminista grazie alla lettura delle “Lettere persiane” scritte da Montesquieu e del “Contratto sociale” di Rousseau. Sulla lettura di tali libri, Beccaria, scrisse il suo trattato “dei delitti e delle pene”, dopo alcune pubblicazioni di stampo economico, lasciandosi ispirare anche dalle discussioni in casa Verri sul problema dello stato riguardo la giustizia penale.

Il libro suscitò talmente tanto scalpore, in Italia, da meritarsi un posto fra i libri proibiti nel 1766.

Nello stesso anno, Cesare Beccaria, si recò in Francia controvoglia per assecondare i fratelli Verri e alcuni filosofi francesi. Il suo carattere, tuttavia, risultò essere un ostacolo non da poco alla permanenza tanto da spingerlo a lasciare i suoi compagni di viaggi da soli, verso l’Inghilterra e lui tornò a casa, a Milano.

Nella vita scrisse molte opere, tutte di grande valenza ma per noi Investigatori Privati, Criminologi della nuova scuola e Avvocati Penalisti, il suo fiore all’occhiello e ciò che prendiamo ancora in considerazione fu “Dei delitti e delle pene”, un’analisi politica e giuridica contro la pena di morte e la tortura.

Basò il proprio trattato su una visione razionalista ed utilitarista del fenomeno, rendendolo così uno dei tre testi più influenti e su la cui base è stato redatto il primo Codice penale voluto dal Granduca Pietro Leopoldo di Toscana. Quest’opera fu stampata e pubblicata in lingua italiana nel 1764 per la prima volta a Livorno, grazie a Marco Coltellini.

Il pensiero di Beccaria riguardo la pena di morte di può riassumere in una frase: “una guerra della nazione contro un cittadino”.

Per lui, infatti, era inaccettabile perché il bene della vita è indisponibile, per tanto, la vita umana, non appartiene né agli uomini, né allo Stato. La pena di morte non è un vero deterrente al male e non è necessaria, in nessun caso, in situazioni di pace. Beccaria non vede in questa soluzione nemmeno una buona causa per la paura della pena, in quanto, una persona, teme di più l’ergastolo o la schiavitù, piuttosto che la pena di morte.

In sostanza, la pena di morte, è solo una sofferenza definitiva al contrario dell’ergastolo la cui sofferenza, per concetto, è costante per tutta la vita del carcerato. Critica anche coloro che assistono alle pubbliche esecuzioni, poiché vedono tale gesto solo come un mero spettacolo o una dose di compassione quotidiana.

A tale proposito di pubblico, Cesare Beccaria distingue anche due generi di reazioni psicologiche alle due diverse modalità: la prima porta all’indurimento alla morte e l’aumento della voglia di commettere delitti. Nel secondo caso, invece, si ha una sensazione più tendente alla fiducia nei confronti delle istituzioni.

Nei confronti della tortura, Cesare Beccaria, ha un’avversione ancora maggiore, riassumibile nella sua citazione: “l’infame crogiuolo della verità”

Per Beccaria, la tortura, viola la presunzione di innocenza poiché un uomo, in quanto tale, è innocente fino alla sentenza del giudice, lede la libertà dell’individuo, rendendo un’affiliazione che la portano ad essere inaccettabile, nonché esisteva anche un divieto che impediva la schiavitù umana fino a sentenza contraria, quindi era come torturare un innocente. Torturare, poi, non porta nemmeno alla validità di legge in quanto il soggetto, pur di avere tregua, potrebbe testimoniare il falso e poi, ultimo motivo, torturando un innocente lo si pone in una situazione ben peggiore rispetto ad un vero e proprio colpevole.

Beccaria permette tale pratica solo se il soggetto in questione, si ostina a non rispondere alle domande del giudice, trovando così una giustificazione valida.

Nonostante questa piccola deroga, Cesare Beccaria, ne chiede la totale abolizione rendendo il lato utilitarista schiacciato dalla parte razionale che vede questa pratica solo come una pena preventiva, violenta e priva di giustificazioni.

Sulla base proprio di tali ragionamenti viene redatta l’opera “Dei delitti e delle pene” che cerca anche di dare una motivazione alle pene e dargli dei limiti e/o delle variazioni.

Tale opera verrà usata anche come ispirazione per Verri per il libro “Osservazioni sulla tortura” e, lo stesso Voltaire, commentò il trattato.

Cesare Beccaria è tutt’oggi considerato, grazie a questa sua maestosa opera, uno dei padri fondatori della teoria del Codice penale e della Criminologia. 

Proprio in virtù di questo breve saggio, come scritto e accennato nella descrizione dell’opera i n precedenza, Cesare Beccaria, si pone delle domande, in spirito illuminista, circa la modalità di accertamento dei delitti e delle pene in uso all’epoca. Inutile dire come il notevole successo che riscontrò, ai suoi tempi e non solo, tale trattato anche se, nel resto d’Europa, fu destinata ad un fiasco pressoché totale.

Nonostante questo, l’abate André Morelette, ne capì il potenziale e decise di tradurre il saggio “Dei delitti e delle pene” in francese, permettendone così la diffusione. In seguito, fu tradotta anche in altre lingue, fra cui l’inglese.

Non potremmo chiudere questo articolo se non riportandone proprio una parte integrale che meglio sa esprimere tutto ciò che noi, in queste righe, abbiamo provato a trasmettervi:

«Falsa idea di utilità è quella che sacrifica mille vantaggi reali per un inconveniente o immaginario o di troppa conseguenza, che toglierebbe agli uomini il fuoco perché incendia e l’acqua perché annega, che non ripara ai mali che col distruggere.

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