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Coronavirus: Gatti (Unimpresa), in Lombardia imprenditori chiudono in lacrime

«Ogni giorno riceviamo richieste di aiuto dai nostri associati, imprenditori italiani che sono disperatamente legati al mantenimento in vita delle proprie attività. Ascoltiamo imprenditori di tutte le età in lacrime, costretti a chiudere le aziende perché i decreti emanati lo scorso weekend dal governo non consentono di essere in regola ed all’apertura dei cancelli trovano le autorità e le forze dell’ordine a fare controlli e a multare. E la preoccupazione è per i propri dipendenti, perché se si chiude e non si riapre più, ci saranno nuovi poveri. E al momento è evidente che il governo non ha trovato sufficienti risorse per aiutarci». È quanto denuncia il presidente di Unimpresa Lombardia, Isa Gatti, mettendo in evidenza la crisi dell’imprenditoria italiana e lombarda in particolare, «drammaticamente piegata dagli effetti del Coronavirus».

«Per quanto riguarda il decreto Cura Italia, mancano tutte le circolari e le disposizioni attuative, anche per avviare concretamente la moratoria delle rate dei prestiti messa in piedi dall’Abi e dalle banche. Non si tratta di una lamentela fine a sé stessa, piuttosto è opportuno sottolineare l’urgenza di alcune misure operative, indispensabili per gli imprenditori italiani, grandi e piccole aziende oltre che professionisti» osserva il presidente di Unimpresa Lombardia.

Gatti ha raccolto alcuni esempi di imprenditori in profonda crisi in un documento nel quale punta il dito anche contro la «burocrazia»; contro gli «annunci notturni e nel weekend» da parte del governo; contro la «sovrapposizione di ordinanze» regionali e comunali, che creano confusione fra i cittadini; contro lo «sciopero generale annunciati dai sindacati»; contro gli «allarmismi» della stampa. Il presidente di Unimpresa Lombardia teme che «quando si tornerà alla normalità, conteremo più morti sociali che morti per Coronavirus».

LE STORIE

Nella “rassegna” di Unimpresa Lombardia, si trova la storia di un imprenditore della provincia di Varese che ha chiuso poiché la sua attività è soggetta allo stop stabilito dal dpcm del governo del 22 marzo. Una interruzione imposta dal provvedimento dell’esecutivo e tuttavia non giustificata da particolari criticità, poiché l’azienda aveva già implementato e attuato i protocolli di sicurezza sul distanziamento e anche misure cautelative aggiuntive per i suoi dipendenti, tra cui lo smart working ove possibile. L’azienda, però, ha ordini sollecitati costantemente dal Medio Oriente, non potrà rispettare le scadenze: ne consegue che pagherà le penali e perderà commesse. Ma chi assicurerà il futuro alla sua azienda ed ai suoi dipendenti?

Nel lodigiano, un’azienda farmaceutica che produce macchinari, con 30 dipendenti e 50 anni di storia, potrebbe restare aperta, ma i suoi fornitori di materie prime, invece, hanno fermato le attività. La strada obbligata, con fabbrica ferma e nuovi ordini congelati, è avviare la cassa integrazione per i lavoratori.

Qualche problema si riscontra anche con le banche: tra linee di credito congelate (ma interessi pretesi comunque) e richieste di finanziamenti regionali fermi al palo, un commerciante con quattro negozi e attivo anche sul versante delle esportazioni corre il rischio di andare in crisi profonda. 

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