di Paolo Longobardi, Presidente Onorario di Unimpresa
La questione mediorientale mi impone, alla luce delle novità, di fare alcune considerazioni e di condividerle con gli amici di Unimpresa. Perché la guerra in Israele ha raggiunto un nuovo apice di tensione e incertezza, un conflitto che sembra aver perso qualsiasi margine di controllo. Gli attacchi si susseguono senza sosta, e quella che sembrava essere una battaglia per il controllo territoriale tra israeliani e palestinesi si sta rapidamente trasformando in uno scontro regionale molto più ampio, con attori esterni come Hezbollah e l’Iran che giocano un ruolo sempre più decisivo.
L’attacco con drone contro la residenza del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu segna una nuova escalation. Questo episodio, che si ritiene orchestrato da Hezbollah con il supporto iraniano, rappresenta non solo un affronto diretto alla leadership israeliana, ma un messaggio esplicito: il conflitto non ha più confini. Israele ha risposto con forza, come ci si poteva aspettare, intensificando le sue operazioni militari non solo a Gaza, ma anche contro Beirut e altre basi operative di Hezbollah. L’Iran, vero regista dietro Hezbollah, è ora dichiaratamente nel mirino di Israele, e ciò apre uno scenario di guerra su più fronti che potrebbe destabilizzare l’intero Medio Oriente.
La strategia di Israele è chiara: non cedere terreno e dimostrare al nemico che ogni attacco sarà risposto con una forza ancora maggiore. Ma questo approccio, sebbene coerente con la dottrina della sicurezza nazionale israeliana, ha delle conseguenze pesanti. La popolazione israeliana vive un costante stato di allerta, con attacchi missilistici e allarmi frequenti che destabilizzano la vita quotidiana. Il tessuto sociale del paese, già provato da divisioni interne, rischia di lacerarsi ulteriormente sotto il peso di un conflitto senza fine.
Eppure, questo non è solo un conflitto che riguarda Israele. Gli attori esterni sono entrati prepotentemente sulla scena. Hezbollah, con il suo arsenale sempre più sofisticato, e Hamas, nonostante le difficoltà, continuano a rappresentare una minaccia costante. E poi c’è l’Iran, che alimenta e finanzia questi gruppi, usando il conflitto per affermare la sua influenza nella regione e per mettere Israele in una posizione di difensiva continua. Il rischio di un conflitto diretto tra Israele e Iran non è più un’ipotesi remota, ma una possibilità concreta.
Se questo accadesse, le conseguenze sarebbero devastanti, non solo per Israele e i territori palestinesi, ma per l’intero Medio Oriente. Gli Stati Uniti, fedeli alleati di Israele, seguono da vicino l’evoluzione del conflitto, cercando al contempo di mantenere una certa distanza per evitare un coinvolgimento diretto. Ma quanto a lungo potranno restare spettatori? Se l’Iran decidesse di aumentare ulteriormente la posta, le sanzioni e le pressioni diplomatiche potrebbero non essere più sufficienti a contenerlo. I paesi del Golfo, dal canto loro, guardano con interesse alla situazione, vedendo un’opportunità per rafforzare i loro legami con Israele, in un’inedita alleanza contro il comune nemico iraniano.
E l’Europa? Divisa come al solito. Da un lato vi è la tradizionale vicinanza a Israele, dall’altro le crescenti critiche per le operazioni militari del governo Netanyahu, viste da molti come eccessive e controproducenti. La crisi energetica incombe come una spada di Damocle su qualsiasi decisione politica europea: un conflitto più ampio nel Medio Oriente potrebbe bloccare i flussi di petrolio e gas, aggravando ulteriormente la già fragile situazione economica del continente.
Nel frattempo, la popolazione civile, sia israeliana che palestinese, continua a pagare il prezzo più alto. A Gaza, la situazione umanitaria è al collasso. Le infrastrutture civili sono state colpite duramente dagli attacchi israeliani, e la popolazione, già stremata da anni di assedio e privazioni, si trova ora a vivere in condizioni disperate. Le organizzazioni umanitarie faticano a rispondere a un’emergenza che sembra non avere fine, mentre gli ospedali sono ormai al limite delle loro capacità. Ma anche in Israele i civili soffrono. Le città del sud sono sotto la minaccia costante dei razzi di Hamas, e il timore di attacchi missilistici a lungo raggio da parte di Hezbollah incombe sulle grandi città del nord.
Quello che si profila è uno scenario di guerra prolungata, con poche prospettive di una soluzione pacifica. La retorica della guerra continua a dominare, le trattative diplomatiche sono bloccate e gli sforzi di mediazione delle Nazioni Unite appaiono impotenti di fronte alla complessità del conflitto. La sfiducia reciproca tra le parti è così profonda che ogni tentativo di negoziazione sembra destinato a fallire prima ancora di cominciare.
Alla luce di tutto ciò, la domanda che dobbiamo porci è: quale futuro possiamo immaginare per Israele e per il Medio Oriente? Se la guerra continuerà a intensificarsi, le ripercussioni saranno devastanti non solo per le parti direttamente coinvolte, ma per l’intera regione. Eppure, al momento, né Israele né i suoi nemici sembrano disposti a fare un passo indietro. La guerra in Israele, che molti speravano fosse confinata a una disputa territoriale, rischia di diventare il fulcro di una crisi internazionale ben più ampia.
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