Strage di imprese durante la pandemia: sono quasi 100.000 i fallimenti in sei mesi, più di 15.000 al mese, circa 4.000 a settimana, oltre 544 al giorno. Da aprile a settembre di quest’anno sono cessate in Italia oltre 98.000 imprese: si tratta di 27.000 realtà del commercio, 12.500 del settore edilizio, oltre 8.600 del turismo e 8.500 dell’industria. Questi i dati principali di un rapporto del Centro studi di Unimpresa sui defualt di aziende durante il Covid-19, secondo il quale il 27% dei fallimenti, ovvero uno su quattro, si riferisce al commercio. «La crisi economica che stiamo attraversando è una conseguenza diretta delle misure di contenimento adottate dal governo per fronteggiare la pandemia» commenta il vicepresidente di Unimpresa. «I dati della crisi se pur devastanti, non sono stati ancora compresi. Basti pensare che il 23% delle aziende italiane ha un capitale circolante negativo con livelli di indebitamento eccessivi. La pandemia ha determinato per le piccole e medie imprese italiane una perdita secca, e se si pensa con la cassa integrazione di risolvere i problemi si commette un errore strategico. La cassa integrazione può ridurre il problema, ma le aziende con i bilanci in rosso, ovvero con debiti e costi superiori agli incassi, non fanno altro che aumentare l’indebitamento» spiega, secondo il quale «a fronte di un calo di fatturato causato dalla pandemia, una perdita di liquidita ormai evidente, e i costi superiori agli incassi, è necessario, con urgenza mettere in campo la politica dei sostegni veri e rapportati alle perdite del periodo pandemia senza creare false illusioni».
Secondo l’analisi del Centro studi di Unimpresa – che ha elaborato dati di Bce, Infocamere, Unioncamere, Censis e Anpal – mancano all’appello oltre 27.000 imprese del commercio (150 imprese al giorno), oltre 12.500 imprese dell’edilizia (66 imprese al giorno), oltre 8.600 del turismo (48 imprese al giorno), oltre 8.500 imprese industriali (48 imprese al giorno), oltre 27.000 imprese artigiane (150 imprese al giorno), oltre 2.700 imprese del settore trasporti (15 imprese al giorno). In termini di percentuali, il commercio rappresenta oltre il 27% delle cessazioni, stessa cosa l’artigianato, l’industria rappresenta quasi il 9% delle cessazioni e il turismo quasi il 9% delle cessazioni. Dati negativi confermati dalla flessione del 24,3% delle assunzioni previste nel mese di novembre, quasi 264mila, rispetto allo stesso mese dell’anno scorso e una riduzione del 10% delle imprese che prevedono nuova occupazione.
L’incertezza economica e occupazionale determina per le imprese dei servizi turistici, alloggio e ristorazione una previsione del -31,8% delle entrate programmate rispetto a novembre 2019, dei servizi operativi di supporto alle imprese e alle persone (-30,8%) e dei servizi dei media e della comunicazione (-28,5%). Per l’industria, fortemente al ribasso le previsioni delle imprese dei comparti carta, cartotecnica e stampa, (-43,1%), legno e mobile (-39,7%), altre industrie (-34%) e tessile, abbigliamento e calzature (- 31,0%). Come se non bastasse, 460.000 piccole e medie imprese italiane, con meno di 10 addetti e un fatturato inferiore ai 500.000 euro sono a rischio chiusura a causa della pandemia. Si tratta di imprese che insieme riescono a fatturare 80 miliardi di euro, impiegare 1 milione di lavoratori e che rappresentano il motore dell’economia italiana. Oltre 370.000 aziende hanno subito un calo della metà del fatturato e 415.000 imprese hanno il 50% in meno di liquidità rispetto all’anno scorso. Quanto alla liquidità, il 17% delle aziende italiane non ha più risorse sufficienti per la gestione corrente. Probabilmente riusciranno ad andare avanti solo quelle aziende con importanti riserve di capitale o che riusciranno ad accedere al credito bancario attraverso il Fondo di centrale di garanzia.
Secondo il vicepresidente di Unimpresa «purtroppo bisogna fare i conti con un bilancio dello Stato su cui pesa come un macigno il debito pubblico che supera i 2.200 miliardi e su cui si vanno a pagare oltre i 100 miliardi l’anno di interessi. Va anche attentamente monitorata la situazione delle banche italiane che dovrebbero finanziare le imprese con il ricorso al fondo di garanzia, ma che si trovano a fare i conti i crediti deteriorati, che non hanno svalutato del tutto e che tengono in bilancio con un valore tra il 45 e 50%. Peccato che nessuno li acquisti e ne tantomeno vengono prese in considerazioni eventuali ipotesi di chiusura a stralcio dei diversi debitori, ma paradossalmente si arriva al 20% quando ci sono le offerte di società di recupero credito delle quali non si conosce, spesso, in maniera trasparente, l’azionista di riferimento. Peraltro, la Banca d’Italia recentemente ha imposto criteri rigidi di valutazione del merito creditizio per le imprese italiane, a prescindere dall’utilizzo del fondo di garanzia dello stato, ovvero della famosa “potenza di fuoco”. «All’interno di questo quadro abbastanza complesso e di difficile comprensione, le imprese colpite dalla pandemia continuano a rivendicare il diritto a lavorare e la presenza dello stato quale elemento di garanzia. Occorre far emergere la vera realtà del “Sistema Italia”, su cui pesa l’enorme debito pubblico, la mancanza di una copertura finanziaria per fare fronte alle legittime richieste delle piccole e medie imprese, una burocrazia ormai divenuta inaccettabile e una politica assente che ha adottato delle misure inadeguate. Non è chiaro dove siano finiti i valori di coesione economica, sociale e territoriale dell’Europa» conclude.
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