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Dati negativi sull’occupazione e la mancanza di politiche attive

di Giovanni Assi consigliere nazionale Unimpresa Lavoro e Welfare

Il timore di ammettere di aver sbagliato! Sembra questo il sentimento che subito dopo il pasticcio del D.L. 87/2018 (IL C.D. Decreto Dignità) ha attanagliato i vari ministri del lavoro succedutisi e che timidamente hanno provato a “smontare” una delle normative in materia di lavoro più disgraziate, tra l’altro in un mercato del lavoro profondamente mutato anche a seguito delle inevitabili conseguenze che la pandemia da Covid-19 ci ha portato, il risultato? un puzzle obbrobrioso che genera solo confusione (e maggiori costi)alle imprese senza nessun risultato se non quello di buttare fuori dal mercato del lavoro tutti quei dipendenti con contratto di lavoro a tempo determinato, una platea di  circa 3 milioni di lavoratori su cui pende una spada di Damocle rappresentata dagli assurdi quanto stringenti limiti.

L’ultimo provvedimento in ordine temporale che genera ancora una volta solo dubbi interpretativi è quello che prevede per i contratti a termine a partire dal 25 luglio 2021, data di entrata in vigore della legge 23 luglio 2021 n. 106 che ha convertito, con modificazioni, il decreto Sostegni bis (D.L. n. 73/2021),  il termine di durata superiore a 12 mesi  (ma comunque non eccedente i 24), che può essere apposto ai contratti di lavoro subordinato qualora si verifichino specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di lavoro fino al 30 settembre 2022. Ma a cosa serve nell’immediato tale provvedimento? Prima che la contrattazione collettiva si concretizzi per l’individuazione delle nuove  esigenze, ci metterà del tempo per mettersi in linea e nel frattempo tutti i lavoratori giunti ormai al limite dei 12 o 24 mesi saranno espulsi dalle rispettive aziende. Oltre al fatto che comunque già di per se il primo contratto è sempre senza condizioni fino alla soglia dei 12 mesi e che fino al prossimo 31 dicembre le precedenti proroghe e rinnovi sono stati azzerati e i datori di lavoro possono fruire delle tipologie contrattuali a termine, inclusa la somministrazione, senza la necessità di dover apporre condizioni, pertanto trattasi di un timido e poco influente provvedimento. Inoltre per la piena operatività della novità legislativa occorrerà come detto del tempo: infatti si parla di accordi finalizzati ad individuare “esigenze specifiche” con il molto probabile risultato di incrementare il contenzioso giudiziale  con effetti negativi per il datore,  con l’ultima parola lasciata al giudice di merito come ci ricorda tutta l’esperienza sui contratti a tempo determinato successiva al D.L.vo n. 368/2001.

E non va dimenticato che nel corso del 2020 e nella prima metà del 2021, sono state introdotte, nel nostro ordinamento, altre misure temporanee in deroga al sempre più fuori luogo Decreto Dignità con l’obiettivo di mettere una pezza e provare  salvaguardare i posti di lavoro, come ad esempio l’art. 19-bis del Cura Italia (D.L. n. 18/2020) con il quale è stato consentito di rinnovare o prorogare i rapporti a termine o in somministrazione allo scopo di far fruire l’integrazione salariale COVID-19, alle disposizioni contenute in provvedimenti d’urgenza successivi che hanno consentito  di rinnovare o prorogare, per una sola volta, i contratti a tempo determinato, senza apposizione di alcuna condizione, per un massimo di 12 mesi, fermo restando il limite complessivo di 24, o alla disposizione, prevista dal comma 1 dell’art. 17 del decreto Sostegni (D.L. n. 41/2021) che ha “azzerato” le precedenti proroghe ed i rinnovi utilizzati in precedenza, a far data dal 24 marzo 2021.

Da questi timidissimi e sparpagliati segnali è chiaro che il Legislatore, in un momento di grande incertezza che, sconsiglia per una serie di motivi, le assunzioni a tempo indeterminato, vorrebbe provare a  favorire anche nella logica correlata ai piani che il nostro Paese dovrà attuare in adempimento agli obblighi comunitari ( PNRR), una occupazione a termine di una certa durata  minima garantita.

Forse è opportuno ricordare che tale tipologia contrattuale, tanto demonizzata dagli ultimi ministri, è la tipologia che più è cresciuta numericamente negli ultimi dieci anni con oltre 800 mila unità vale a dire un + 36,3%, esattamente in controtendenza alle politiche del lavoro sopra citate, chiaro segnale che ancora una volta la distanza tra le aule parlamentari e le aziende sono ancora abissali, sono su due mondi diversi. Oggi se 1 lavoratore su 5 è assunto con contratto di lavoro a tempo determinato (circa il 20% dei lavoratori complessivi) qualcosa vorrà pur dire, e allora la domanda viene fuori naturalmente: è meglio un contratto di lavoro a tempo determinato regolare con tutte le tutele spettanti ai lavoratori oppure è meglio un solo “potenziale” lavoro a tempo indeterminato o peggio ancora un lavoro senza tutele nei meandri del lavoro nero?

Allora perchè non dare l’opportunità alle aziende ed ai lavoratori di poter avere numerosi contratti a tempo determinato, magari sempre con la stessa azienda che in questo momento avendo tanti dubbi sul futuro decide di assumere con delle scadenze che poi puntualmente potrà rinnovare/prorogare? 

Anzichè imporre questi ormai obsoleti vincoli, irrigidendo un mercato del lavoro che invece in questo momento richiederebbe la massima elasticità, preoccupiamoci di dare un ammortizzatore sociale unico capace davvero di dare Dignità a quei lavoratori che magari per qualche periodo potrebbero non vedersi rinnovato un contratto, garantendo un’indennità che dia la possibilità alla sua famiglia di mantenere un livello di vita decente anzichè corrispondere quelle indennità da fame previste dall’attuale sistema (4,50 euro all’ora….) e soprattutto darlo con tempistiche rapide e non dopo 3 o 4 mesi.

Ed allora, apriamo davvero l’era delle riforme, se davvero si  vuole cambiare è necessario avere più coraggio, mutando davvero le politiche del lavoro attualizzandole ad un mercato del lavoro sempre più in continua evoluzione, magari iniziando proprio dalla cancellazione del cd Decreto Dignità.

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