La crisi vera si abbatte impietosamente sugli anelli più deboli della catena economica. Come in ogni situazione di emergenza sono stati commessi errori e non si è badato agli effetti secondari che la cura avrebbe potuto avere sul malato pensando, con approssimazione, che a questi si sarebbe potuto provvedere durante la convalescenza.
L’ondata dei suicidi occupa le cronache degli ultimi mesi. Una tragedia umana e sociale sulla quale non si può più tacere. A decidere di farla finita non sono tanto i disoccupati di lungo corso, quanto le persone che perdono il lavoro o sono costrette a chiudere piccole aziende di famiglia: i piccoli imprenditori sono particolarmente a rischio.
Significativamente, casi di suicidio si registrano nelle regioni più dinamiche del Paese (Veneto, Friuli, Trentino, Emilia Romagna e Toscana). Piccoli imprenditori che non riescono a superare la fine del progetto di una vita, e sono costretti a fare i conti con un fallimento vissuto come un’onta. Quando un’impresa fallisce, non è infatti solo l’attività a fallire, ma il fallimento è anche umano. Viviamo una situazione morale e psicologica che sembra non offrire vie d’uscita. Di fronte ad un evento di così grande impatto, quale il pericolo di fallimento della propria attività, l’imprenditore non vede più opportunità nel futuro. Si isola dalla comunità, dagli affetti, cambia le abitudini giornaliere. Insomma, non si riesce ad affrontare il crollo delle speranze altrui. La mancanza di aspettative mina la persona, specie se c’è una fragilità psicologica.
Vi è in queste vicende un senso di responsabilità talmente radicato verso i propri familiari, i propri dipendenti, la comunità che impedisce di chiudere l’attività e che finisce per schiacciare l’imprenditore. Vi è la paura diffusa di ritornare poveri. La vergogna, l’umiliazione, l’onore scuotono nel profondo l’animo dell’imprenditore. Sicché la morte rappresenta qualcosa di risolutivo rispetto alle sofferenze determinate dall’assenza di futuro. Del resto, non tutti hanno eguali canali di accesso al credito, alle agevolazioni, a strumenti di sostegno sociale.
Stiamo scrivendo, con tutta probabilità, alcune delle pagine più tristi della crisi. Dobbiamo essere molto vigili su quello che sta succedendo. Questi drastici accadimenti non sono semplici fatti di cronaca, sono drammi che coinvolgono tutto il Paese perché sono segnali forti, veri e propri campanelli d’allarme. Il suicidio di un imprenditore non è solo un caso umano dolorosissimo, ma anche la spia delle difficoltà che opprimono oggi tante piccole imprese che si dibattono tra pagamenti che non arrivano, banche che non concedono credito e che non fanno sconti, istituzioni mute di fronte alle richieste di aiuto.
Se l’ondata di suicidi è un fenomeno atteso, che si è registrato anche in occasione della grande crisi economica degli anni ’30 del Novecento, oggi non si fa nulla per prevenire queste morti. In questo drammatico scenario le Amministrazioni, le Istituzioni sono assenti. Si avverte soprattutto l’assenza totale di una pianificazione seria in grado di intercettare il malessere del piccolo imprenditore e di contrastare la “crisi suicidaria”, intesa come la nuova crisi psico-sociale del nostro secolo.
Ci saremmo aspettati da parte delle forze politiche e delle parti sociali un clima di sostegno, manifestazioni di solidarietà (anche solo simbolica) nei territori. Niente di tutto ciò è accaduto o comunque assai poco è stato fatto. Il Governo ha dato sin’ora segnali ambigui e contraddittori che spesso hanno finito per accrescere l’incertezza.
Eppure numerose ricerche hanno dimostrato che si potrebbero mettere in campo iniziative efficaci: piccoli investimenti e progetti che offrano un sostegno ai lavoratori e agli imprenditori sarebbero in grado di contenere il tasso di suicidio e di salvare molte vite. Aiutiamo gli individui in crisi, aprendo sportelli ove si veicolano informazioni, con brochure e personale competente, impostando programmi che aiutino a uscire dalla crisi o a gestire più serenamente la fase del fallimento.
Strettamente connesse alla spirale di suicidi nel mondo imprenditoriale, sono poi le vicende legate ad Equitalia (minacce, intimidazioni e attacchi contro sedi centrali e periferiche), ente che si è trasformato, nell’opinione comune, da esattore a lupo famelico. La cronologia di questa mescolanza di eventi sta a dimostrare come stia pericolosamente salendo la tensione.
Pur condannando in modo assoluto, senza se e senza ma, ogni atto piccolo o grande di violenza, non si possono non sottovalutare i sintomi di uno strisciante malessere sociale, di una inarrestabile deriva civile del tessuto connettivo del nostro Paese. Il rischio è che si fomenti una pericolosa spirale emulativa. Si denuncia da più parti un crescente grado di disumanità del sistema esattoriale e l’assenza di criteri di buon senso. C’è sicuramente più di una riflessione da fare su Equitalia, ad esempio sui tassi di interesse raggiunti dalle cartelle esattoriali, sulla messa all’asta delle prime case o sull’impossibilità per le imprese di compensare debiti e crediti con lo Stato.
Il rischio maggiore è che l’azione di riscossione si indirizzi solo sui beni visibili di artigiani e commercianti e lasci invece sostanzialmente intatti gli interessi di chi porta i capitali all’estero o si nasconde dietro dei trust. Il sistema appare sbilanciato: troppo forte con i deboli e debole con i forti. Mi auguro che il Governo riveda responsabilmente al più presto il funzionamento dell’Agenzia.
Ma non basta. Bisogna ridare al Paese un segnale di fiducia. Al rigore della finanza pubblica non vi è alternativa, ma l’Italia può e deve farcela, soprattutto se l’economia riprenderà a crescere. Il che dipenderà da adeguate scelte politiche e imprenditoriali, come da comportamenti diffusi, improntati a laboriosità e dinamismo.
Chi non porta i capannoni all’estero e si batte estenuantemente per garantire occupazione nei nostri territori va ascoltato e aiutato. La degenerazione dei rapporti economici è molto profonda e richiede un rapido intervento legislativo che obblighi i soggetti economici a rispettare i tempi di pagamento pattuiti che ricordi alle banche che il loro mestiere è anche quello di sostenere chi fa impresa, soprattutto a fronte delle tante “agevolazioni” ricevute dal Governo.
È la scommessa dei prossimi mesi. Dalla crisi l’Italia dovrà uscire più rigorosa e più retta, meno statica, moralmente e civilmente più coesa. Come ha sottolineato Napolitano occorrerà una nuova «forza motivante» perché «si sprigioni e operi la volontà collettiva indispensabile». Occorreranno «coraggio civile e sguardo rivolto con speranza fondata verso il futuro».
Paolo Longobardi, presidente nazionale di Unimpresa
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