di Paolo Longobardi, Presidente onorario Unimpresa
L’Europa si sveglia, ma lo fa sempre in ritardo. È una costante della sua storia recente: un gigante economico che inciampa quando si tratta di agire come un blocco coeso, politico e strategico. Il dibattito sulla difesa comune, riacceso dalla guerra in Ucraina e dalle pressioni di un mondo che si riassesta sotto il peso di Usa, Russia e Cina, è l’ennesima prova di quanto tempo abbiamo perso. E di quante occasioni abbiamo sprecato per metterci alla pari con i giganti che decidono i destini globali.
La guerra in Ucraina, che dal 2022 macina vite e risorse a poche ore dai nostri confini, ha fatto suonare un campanello d’allarme che non possiamo più ignorare. L’Europa, con i suoi 450 milioni di cittadini e un PIL che supera i 16 trilioni di euro, avrebbe dovuto essere un attore protagonista, non una comparsa in affanno. Invece, eccoci qui: a discutere di un’ipotetica difesa comune mentre Mosca schiera 700 mila uomini sul campo, Washington detta i tempi delle sue scelte e Pechino osserva, pronta a cogliere ogni nostra esitazione. I numeri parlano chiaro. Secondo il think tank Bruegel, per garantire una deterrenza credibile contro la Russia servirebbero almeno 250 miliardi di euro annui in più di spesa militare. Oggi, l’Ue nel suo complesso spende circa 338 miliardi di dollari all’anno per la difesa, ma lo fa in ordine sparso, con 27 eserciti che non parlano la stessa lingua operativa. Un lusso che non possiamo permetterci.
Il problema non è solo di risorse, ma di visione. Per decenni abbiamo delegato la nostra sicurezza agli Stati Uniti, convinti che la Nato fosse un ombrello eterno. Oggi, con un’amministrazione americana che minaccia di ritirarsi e un Trump che parla di “Articolo 5 selettivo”, ci rendiamo conto che l’autonomia strategica non è un’opzione, ma una necessità. Eppure, il progetto di un esercito europeo, ventilato fin dal 1998 a Saint-Malo, è rimasto un fantasma nei corridoi di Bruxelles, soffocato da veti nazionali e dalla miopia di chi preferiva il particolare al bene comune. Intanto, la Russia si riorganizza, la Cina investe in tecnologia militare e gli Usa decidono se e quando lasciarci soli.
Non è solo la difesa a mostrarci fragili. La guerra in Ucraina ha messo a nudo la nostra dipendenza energetica – ieri dalla Russia, oggi da altri – e la difficoltà di parlare con una voce sola quando si tratta di sanzioni o negoziati. L’Europa ha i mezzi per essere una superpotenza: un mercato unico invidiabile, una capacità industriale che potrebbe competere con chiunque, una demografia che, pur in crisi, supera quella di Mosca. Ma manca la volontà. O meglio, manca il coraggio di superare le gelosie tra Stati membri, di mettere in comune non solo i bilanci, ma anche le ambizioni.
Qui non si tratta di fare poesia, ma conti. E i conti ci dicono che ogni anno di ritardo ci costa credibilità e sicurezza. Pensiamo alle occasioni perse: il fallimento del Trattato costituzionale nel 2005, l’incapacità di sfruttare la crisi del 2008 per un’integrazione più profonda, la lentezza nel rispondere alla pandemia. Ora, mentre il mondo si spacca tra blocchi – l’Occidente declinante, la Russia revanscista, la Cina in ascesa – noi siamo ancora qui a chiederci se un esercito europeo sia “pratico”. La risposta è semplice: non lo era ieri, lo è oggi, sarà tardi domani.
Un’Europa unita non è un sogno, è una questione di sopravvivenza. Le imprese italiane, che rappresentano il 70% del nostro PIL, hanno bisogno di un continente stabile, competitivo, capace di difendersi e di farsi rispettare. Ma questo richiede un salto che non abbiamo mai fatto: smettere di guardarci l’ombelico nazionale e pensare come un’unica entità. Altrimenti, resteremo quello che siamo: un gigante economico con i piedi d’argilla, spettatore di un gioco che altri scrivono. E il tempo, come sempre, non aspetta.
- Circolare – 14.03.2025 - 14 Marzo 2025
- Comunicato stampa del 14-03-2025 n. 059 - 14 Marzo 2025
- Rassegna Stampa Estera 14.03.2025 - 14 Marzo 2025