di Marco Massarenti, Presidente Unimpresa Sport e Tempo libero
Da secoli ormai quella delle donne è un’annodata storia di rivendicazione della parità, di traguardi e lotte per i diritti di genere che sembra non avere fine; una costante e faticosa ricerca di quell’eguaglianza che secondo lo studio realizzato da Accenture e Quilt.AI insieme a Women20 si raggiungerà solo nel lontano 2171.
Dal rapporto del World Economic Forum (Wef) che verifica la distanza in termini di opportunità che separa i due sessi e pone al vertice della graduatoria i paesi dove le risorse sono distribuite in modo più equo emerge che, Norvegia, Finlandia e Islanda si confermano ai primi tre posti della classifica mondiale dei paesi con minore disparità di genere; l’Italia si trova al 84esimo posto. Questa lunga distanza che divide i sessi in ambiti come educazione, lavoro, retribuzione, salute, sport, politica, questo divario di condizioni e trattamento tra uomini e donne non è solo un problema al femminile ma è globale, è un problema di cui tutti dovremmo farci carico in quanto diversi studi hanno dimostrato che l’assenza delle donne dagli ambienti sociali, lavorativi e sportivi equivale ad un grande spreco di risorse e competenze.
La principale causa del gender gap è da ricercare nelle culture dei vari paesi in cui spesso la donna è ancora associata al carico familiare, considerata naturalmente predisposta alle rinunce, quella che per indole va incontro alle esigenze del focolare domestico, costretta invece spesso a dover scegliere tra carriera e famiglia e impossibilitata quindi al raggiungimento di una posizione di rilievo nella società. Eurostat ci fa sapere che Il 37,3% delle donne italiane non lavora per prendersi cura dei figli e in Europa una su tre lavora part-time per riuscire a conciliare le due sfere.
Il rapporto Almalaurea pubblicato di recente conta che il tasso di occupazione femminile continua a registrare percentuali inferiori a quelle degli uomini, divario che si fa strada anche nelle forme contrattuali e nella retribuzione, inoltre, afferma che le donne hanno rappresentato il 60% dei laureati nel 2020 raggiungendo migliori performance e voto finale ma nonostante tutto gli uomini percepiscono il 20% in più e occupano professioni di livello più alto. Ultimamente si registra una ripresa del mercato del lavoro che riguarda però gli uomini, l’ISTAT conferma, infatti, che a novembre 2021 l’occupazione è cresciuta dello 0,3%, ma solo per la componente maschile, mentre quella femminile rimane ferma a quasi venti punti percentuali in meno rispetto agli uomini, uno dei tassi di occupazione femminile più bassi d’Europa; tasso che se fosse uguale a quello maschile il Pil guadagnerebbe 88 miliardi.
Rispetto alla salute, molti tra i paesi esaminati hanno registrato un aumento della disuguaglianza a danno delle donne. Per citare un esempio, in Italia, per le persone affette da celiachia vengono elargiti degli aiuti regolati dal decreto ministeriale del 10 agosto 2018 e una tabella evidenzia la differenza di compenso dei buoni spesa per l’acquisto di prodotti senza glutine tra ciò che spetta agli uomini e ciò che spetta alle donne; queste ultime hanno diritto a un compenso inferiore.
In ambito sportivo ad esempio su 44 federazioni italiane 43 sono capeggiate da uomini e c’è solo una donna al comando eletta Presidente Giuoco Squash. Le quote rosa sono ancora ramificate ai margini ma nonostante il divario predomini, si intravede una velata speranza anche grazie al CIO (Comitato Olimpico Internazionale), che dopo aver fatto registrare il 49% di atlete donne a Tokyo 2021 si pone come obiettivo quello di raggiungere la parità ai Giochi Olimpici di Parigi 2024. Ma la differenza da colmare non sta solo nella percentuale di genere dei partecipanti. Nel nostro Paese vi è una legge che regola il professionismo sportivo, la legge 23 marzo 1981, n. 91, norma che porta le atlete italiane a fare i conti con troppe discriminazioni in termini di investimenti, di premi e montepremi, di visibilità e di rappresentanza. A parità di dedizione e impegno rispetto agli uomini, le atlete non vengono riconosciute come professioniste e sono anche decisamente penalizzate in quanto per i dilettanti non è previsto uno stipendio, spesso non è prevista alcuna assicurazione sanitaria, non è previsto il contributo pensionistico, non vi è tutela nel caso di invalidità, e in caso di maternità, fino a qualche anno fa, il problema si acuiva ancora di più per via delle mere scritture private che prevedevano le “clausole anti-gravidanza” pena la rescissione. Attualmente invece è stato istituito un fondo grazie al quale le atlete in gravidanza ricevono una somma di denaro per tutelare la maternità; certamente non è la soluzione al problema ma è un precedente che tra le righe ammette che lo sport delle donne ha diritto ad essere inserito nell’ambito del professionismo e dovrà diventare un vero lavoro per evitare l’esodo verso l’estero. Anche se in modalità centellinata pare che sul fronte qualcos’altro stia leggermente cambiando; una novità arriva da un attuale emendamento che equipara finalmente le atlete agli atleti e che estende anche a loro le tutele sulle prestazioni di lavoro sportivo; sono però le Federazioni ad avere libertà di decisione sullo status delle atlete e hanno tempo fino al 2 marzo per richiedere l’accesso a un fondo per il professionismo negli sport femminili, opportunità colta al momento soltanto dal calcio probabilmente perché il passaggio richiede una spesa notevole che può essere sostenuta solo da un’entità come il governo, il quale, si spera voglia compiere uno scatto evolutivo di civiltà e stanziare fondi in maniera definitiva. Così facendo, pertanto, si potrebbe iniziare a pensare ad una concreta riorganizzazione delle infrastrutture sportive per il reclutamento e la formazione delle atlete, per la promozione dello sport femminile, per la transizione al professionismo sportivo e per l’allargamento delle tutele assicurative e assistenziali. Altra speranza per l’Italia arriva dal Pnrr che si propone di sostenere le donne agendo sulla cultura, favorire la loro formazione tecnica e scientifica, agevolare il lavoro di madri, usare benefit che possono riconoscere il ruolo importante delle donne, adottare leggi che impongano le “quote rosa” nelle aziende e altre che riconoscano la parità salariale; inoltre, Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, ha presentato una proposta al Parlamento Europeo per garantire la parità di retribuzione tra uomini e donne impiegati nello stesso lavoro e incrociando le dita auspichiamo che possa mettervi un piede nella porta anche lo sport femminile.
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