Se ci dicessero che il lavoro si sta disumanizzando, a cosa penseremmo? Molto probabilmente la nostra mente correrebbe a notizie di operazione dei Carabinieri o della Polizia di Stato contro il lavoro sommerso e che portano a scoprire opifici dove i lavoratori, spesso extracomunitari o del lontano oriente, mangiano e dormono negli stessi locali.
E cosa immaginare se, entrando in un ufficio pubblico, trovassimo un vecchio amico che a stento ci potrebbe salutare altrimenti l’elaboratore elettronico, a cui sta lavorando per il disbrigo di pratiche burocratiche, segnalerebbe la sua assenza per oltre dieci secondi bollandolo come negligente? Certo ci meraviglieremmo e parleremmo di esagerazione. Eppure questa esasperazione, che è certamente una spia della disumanizzazione del lavoro, ha due motivi originanti molto chiari. Il primo è nell’indubbio cattivo utilizzo del tempo, operato da parte del lavoratore, quando i mezzi di controllo attuali non esistevano, e il secondo è nella idea ormai diffusa che per l’efficientismo la dimensione umana si possa tranquillamente sacrificare. Quasi a dire che funzionalità e umanità non possano coesistere per cui l’una va imposta a discapito dell’altra. A ben riflettere però questa visione alla lunga penalizza tutti, sia i lavoratori trattati come nuovi schiavi che i fruitori di servizi trattati come numeri.
Il problema è molto serio perché la logica a cui si nicchia consapevolmente o inconsapevolmente, talvolta anche con simpatia, è quella di spostare l’attenzione dall’uomo alla finanza. In poche parole il capitale umano di un’azienda diventa sempre più un concetto astratto di cui riempirsi la bocca o da utilizzare per bei trattati o interventi a convegni, e assurge a valore insindacabile verso il quale bisogna inchinarsi il concetto, ben più concreto, di utili e profitto.
È questa una disumanizzazione del lavoro pericolosa e indegna per l’uomo tanto quanto quella dello sfruttamento. La privazione, l’alterazione delle relazioni umane sul luogo del lavoro, l’utilizzazione del capitale umano come semplice ingranaggio di un sistema più grande di lui e finalizzato non più al bene ma allo sfruttamento del prossimo e dello stesso, sono vere emergenze.
“Quindi, l’idea che se l’economia dimentica che l’elemento propulsore – ciò che cambia, ciò che innova e ciò che quindi diventa la misura della verità e della giustizia di un sistema economico – è la persona umana e non sono i capitali, non sono le istituzioni, non sono la finanza, eccetera, questa economia alla lunga esce dall’umano, non è più umana”. Lo affermava Benedetto XVI nel 2010 e restano ancora l’unico antidoto per non uccidere ciò che resta dell’umanità del lavoratore.
Alfonso D’Alessio
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