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Lavoro. Unimpresa, no al tetto aziendale per i contratti a termine

No al tetto aziendale per i contratti di lavoro a termine e no all’abolizione del piano formativo individuale per gli apprendisti. Queste le due principali osservazioni di Unimpresa in relazione al decreto legge in materia del lavoro varato dal governo e all’esame della Camera dei deputati. “Le misure introdotte dell’esecutivo di Matteo Renzi – spiega il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi – sono certamente apprezzabili, ma riteniamo opportune alcune correzioni. Speriamo che ci sia il tempo, oltre che la volontà da parte della maggioranza parlamentare, di modificare il testo nel corso dell’iter parlamentare”. Secondo gli esperti dell’associazione, per quanto riguarda i contratti a termine, è di grande importanza l’eliminazione della causale e la possibilità di procedere a più di una proroga senza obbligare le aziende a pericolose ed elusive chiusure e riaperture contrattuali nel rispetto dei periodi di lat enza. Il vero nodo però è, in controtendenza con lo spirito generale che ha animato negli ultimi anni il legislatore, l’aver stabilito una percentuale massima di lavoratori a termine presenti in azienda. Ciò è mortificante sia per le micro e piccole imprese sia per le stesse parti sociali cui la precedente costruzione normativa attribuiva l’incarico di stabilire tale limite. Per le prime (le micro e piccole che rappresentano il 95% del totale delle imprese) significa ridurre al lumicino le assunzioni di lavoratori temporanei e somministrati; per le seconde, le parti sociali, significa vedersi espropriato un ruolo o comunque dover fare i conti con una percentuale che la legge prevede astrattamente congrua per tutti. Sarà difficile immaginare grandi scostamenti dal limite legale a opera dei contratti collettivi nazionali di lavoro, più semplice sarà in caso di contrattazione aziendale che di fatto però taglier à fuori nuovamente le micro imprese.
Quanto alle novità introdotte in materia di apprendistato, appare lodevole la motivazione, molto meno il risultato. Se partiamo dall’assunto che la vera attività formativa è il lavoro e non solo l’aula (e per certi versi potremmo sottoscrivere pienamente) non si vede però quale possa essere l’elemento distintivo di un contratto che vede invece nella componente formativa la sua specialità rispetto agli altri e in special modo rispetto all’atteso contratto di inserimento a tutele crescenti. La manovra prevede il venir meno del piano formativo individuale e la facoltà (ma non è molto chiaro chi possa esercitarla) di far svolgere o meno la formazione di base e trasversale prevista dalle regioni. Al di là dei profili che impattano le competenze costituzionali attribuite alle stesse regioni (con le quali dal 2003 l’apprendistato fa i conti) l’assenza di formazione codificata potrebbe far so rgere dubbi anche sulla legittimità di una contribuzione così ridotta da parte della Unione europea. Senza piano formativo individuale poi sarà quasi impossibile verificare la coerenza della formazione “informalmente ricevuta” coerenza che invece il legislatore espressamente richiede al fine della legittimità contrattuale. Le semplificazioni sono auspicabili sempre, ma quelle che si trascinano in tasca il contenzioso proprio no.

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