di Marco Pepe, Responsabile Relazioni Sindacali di Unimpresa
La svalorizzazione e la precarizzazione del lavoro, l’assenza di politiche per l’occupazione, con le agenzie per il ricollocamento totalmente assenti dal mercato, la mancanza di un piano nazionale di politica industriale, a medio e lungo termine, il disallineamento fiscale e la carenza di misure destinate ad attrarre imprese dall’estero hanno contribuito, in questi difficili anni, specie negli ultimi due, flagellati dalla pandemia, ad aggravare le tensioni sociali e a mortificare il diritto al lavoro, come garantito dalla nostra costituzione repubblicana. Ma, soprattutto, hanno falsato il mercato del lavoro, lasciando proliferare il lavoro nero e la connessa evasione fiscale. Intere famiglie, in tal modo, hanno avuto occasioni di occupazione, al limite della sopravvivenza, soltanto nel sommerso, indirettamente alimentato anche da provvedimenti, come il reddito di cittadinanza. Praticamente, un temporaneo tappo sociale, pronto a saltare!
Ora si discute del salario minimo, come se fosse un argomento centrale per la dignità del lavoro, diventato, di colpo, prioritario nelle agende e nei proclami di tutti i partiti politici. Il tema del salario minimo non può essere affrontato come un problema a sé stante, perché rischia di sviare l’attenzione del legislatore, diventando, di per sé, fuorviante e anacronistico. Non si tratta, quindi, di decidere, se, per legge, debba essere fissato a 9€, lordi o netti, oppure se vada collegato alla rappresentanza e rappresentatività di chi firma i contratti collettivi. Prima del salario minimo, vanno risolti problemi strutturali, che costituiscono i fondamenti di una legislazione sociale organica, in grado di rendere effettivo il diritto al lavoro.
Tali fondamenti sono riassumibili in breve: riorganizzare il collocamento al lavoro, il fisco e il costo del lavoro; potenziare l’appetibilità del territorio italiano per consentire alle imprese estere di scegliere il nostro paese per i loro investimenti; rendere universale il ricorso alla cassa integrazione; sviluppare nuove politiche di formazione permanente che deve essere semplice e immediatamente applicabile, ricostruendo un nuovo rapporto scuola-lavoro e creando attrazione per gli istituti tecnico-professionali; mettere mano allo statuto dei nuovi lavori coprendo quella fascia di lavoratori oggi malamente regolamentata (4milioni di lavoratori su cui si basa parte della politica attuale per giustificare il salario minimo per legge) e, infine, varare lo statuto dei nuovi lavori, come integrazione e aggiornamento dello statuto dei lavoratori (Legge 300/70). Discutere di salario minimo, senza queste preliminari riforme, non ha senso e puó diventare un alibi, oltre ad essere devastante per le piccole e medie imprese. Eloquente, a riguardo, é la sintesi espressa dalla Presidente dei Consulenti del Lavoro, Marina Calderone: “Bisogna evitare che, senza una politica di contenimento della spese e del cuneo fiscale contributivo, (il salario minimo) metta fuori mercato le nostre imprese o alimenti fenomeni di dumping sociale oppure porti a delocalizzazioni selvagge”.
Non da ultimo, per quanto riguarda il confronto da tenersi per un’eventuale legge sulla rappresentanza, sarebbe certamente giustificato, se al tavolo di concertazione partecipassero tutte le associazioni rappresentative, che hanno il sacrosanto diritto costituzionale di presentare le loro proposte. Negare questa partecipazione significherebbe calpestare, ancora una volta, la democrazia e assicurare la libertà associativa, garantita dalla costituzione repubblicana, come un privilegio di pochi, non come un diritto di tutti.
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