Il pacchetto di liberalizzazioni approvato dal Consiglio dei ministri appare molto ampio, impegnativo e coraggioso, stando almeno ad un primo esame dei singoli provvedimenti. Raggiungono fino a un quinto del nostro prodotto interno lordo. Hanno il pregio di toccare molti settori, avviando vere e proprie riforme dei medesimi dopo anni di status quo durante i quali la politica non è riuscita ad attuare le istanze liberali presenti nel Paese.
Non si può non notare come i media abbiano dato ampio risalto a tutti i provvedimenti contenuti nelle bozze del governo che liberalizzano servizi privati dell’economia quali i taxi, le professioni, la distribuzione dei farmaci, la distribuzione dei carburanti e, sembrerebbe con minor enfasi liberista da parte del governo, anche i servizi bancari e assicurativi. Tutti provvedimenti condivisibili, anche se non esauriscono gli interventi che potevano essere utilmente previsti nel decreto.
Non bisogna dimenticare che, pur dovendo affrontare lobby potenti e contrariate, si tratta infatti di mercati sui quali il settore pubblico non è mai presente come produttore. Si ha l’impressione che il Governo abbia accuratamente evitato di incidere con provvedimenti analoghi alla separazione della rete gas, in ambiti quali i servizi postali e il trasporto ferroviario, settori in cui agisce da monopolista. Un intervento di quel tipo sarebbe stato invece assolutamente auspicabile su almeno due fronti: da un lato, stimolare la concorrenza dei new comer; dall’altro, determinare le condizioni necessarie per la dismissione dell’incumbent pubblico.
Restano allora sul tappeto alcune importanti questioni.
In primo luogo: lo Stato, che sembra fermamente intenzionato a liberalizzare gli altri, riuscirà a liberalizzare anche se stesso?
E ancora: che differenze si devono cogliere tra le liberalizzazioni che hanno per oggetto mercati nei quali il settore pubblico non è presente come produttore (servizi privati) e mercati in cui lo Stato è invece l’attore principale (servizi pubblici)?
Infine: perché non estendere le liberalizzazioni al settore pubblico in senso stretto? Si potevano, in sostanza, liberalizzare anche alcuni rami della Pubblica amministrazione?
In un sistema economico sottoperformante, il peggiore per crescita tra tutti i paesi Ocse nell’ultimo quindicennio, le liberalizzazioni sono tutte utili, ma nessuna da sola decisiva per la ripresa economica. Il cambiamento che è in gioco è più profondo e va ben oltre il 2012. E per quanto sia giusto discutere e valutare anche gli effetti immediati di questi provvedimenti, occorre fare molta attenzione. L’evidenza empirica di altri Paesi rivela che in un’ottica di lungo periodo le liberalizzazioni fanno aumentare il reddito e il Governo annuncia una crescita del Pil di 1 – 1,5 punti percentuali l’anno. Con maggior cautela, ritengo che per stabilire l’efficacia delle singole misure bisognerà conoscere molti dettagli non ancora noti.
Provo comunque a formulare alcune considerazioni di carattere più generale.
Come è noto la “liberalizzazione” è un processo che dovrebbe portare a un abbattimento delle barriere legali che intralciano l’attività economica, e segnatamente l’entrata di nuovi attori in un certo settore. Recuperare efficienza, eliminare sacche di inefficienza e posizioni di rendita, dare alle persone la libertà di potere scegliere se, quando e come produrre un certo servizio oppure se, quando e come consumarlo, significa dare più opportunità ai cittadini. E anche questa è equità. Sono certo che anche la creazione di spazi ed opportunità per chiunque abbia voglia e capacità di mettersi in gioco è redistribuzione.
Le liberalizzazioni potrebbero anche semplicemente tradursi in un aumento di qualità ed efficienza a parità di prezzo. Stesso ragionamento per gli effetti occupazionali. Ad esempio, la concorrenza, nei settori pubblici come altrove, dovrebbe favorire la creazione di nuove aziende e quindi nuovi posti di lavoro che vadano a compensare la perdita che avrà luogo nelle aziende meno efficienti. Quanti consumatori o quanti aspiranti imprenditori, professionisti, farmacisti e commercianti decideranno poi di cogliere davvero queste opportunità nei prossimi anni è un altro discorso. Che dipende da fattori economici congiunturali, da fattori culturali e anche da una serie di altri fattori di contesto (riforma della giustizia civile, del mercato del lavoro, della burocrazia e del fisco, perché anche questi fattori influenzano le scelte d’investimento e di consumo).
La domanda che dobbiamo porci non è soltanto «quanti posti di lavoro» si creeranno quest’anno, ma quali logiche cambieremo, quale Paese vogliamo costruire e quali condizioni stiamo plasmando affinché ciò si realizzi.
Creare un mercato che consenta ad un negoziante o ad un professionista di decidere come preferisce competere implica un cambiamento profondo di come si muovono i consumatori, i produttori, ma anche del ruolo dello Stato. Il compito del regolatore pubblico in alcuni settori non sarà più decidere quanta e quale offerta e a quale prezzo un determinato bene o servizio è disponibile al cittadino, ma sarà vigilare che i cittadini abbiano accesso ad un’informazione chiara e trasparente su prezzi e caratteristiche di tutta l’offerta disponibile, e strumenti efficaci per potersi difendere da eventuali frodi o abusi. Questa è la vera novità che potrebbe cambiare profondamente non solo la nostra economia ma anche la nostra società.
Paolo Longobardi, presidente nazionale Unimpresa
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