Perché è sbagliato introdurre meccanismi uniformi tra i vari paesi europei per le retribuzioni: il documento curato dal consigliere nazionale Giovanni Assi
maggio 2021 – a cura del consigliere nazionale Giovanni Assi
Curare un ammalato grave iniziando dalla riabilitazione: è quanto, in questo momento, il Governo Draghi intende fare per affrontare la più grande crisi economica di tutti i tempi. In un momento in cui, nonostante il blocco dei licenziamenti non sia ancora terminato, il numero di occupati sia già sceso di 945 mila unità nel confronto tra febbraio 2021 e 2020 e che purtroppo al termine dello stesso andranno in fumo almeno altri 600 mila posti. In un momento in cui è stato definitivamente riconosciuto il flop della precedente riforma del lavoro con il famigerato Decreto Dignità che ha sciaguratamente ingessato il mercato del lavoro (incentivando il turn-over nelle aziende costrette a decidere dopo appena 12 mesi se assumere a tempo indeterminato un lavoratore senza avere prospettive certe di mercato, favorendo così il lavoro nero) in un contesto storico dove invece la flessibilità è , e sarà l’unica possibile via per poter far rientrare nel mondo del lavoro molti lavoratori espulsi, anche magari riconvertendole.
Nel momento in cui si ricorderà la Cassa integrazione come il fallimento più grande di questa pandemia e che ha visto milioni di lavoratori non solo essere pagati con mesi e mesi di ritardo, ma soprattutto “sostenuti” con indennizzi da fame (poco più di 4,50 all’ora). In un quadro dove il costo del lavoro in Italia è tra i più alti tra i 34 paesi dell’area Ocse e gli incentivi contributivi a disposizione delle aziende per assumere sono davvero al minimo storico: non esistono più sgravi totali (ma nella migliore delle ipotesi vi è un tetto massimo di appena 6.000 annui per lavoratore), gli sgravi esistenti hanno delle “condizioni” davvero incomprensibili (si pensi ad esempio alla condizione consistente nell’assenza nell’intera vita lavorativa del soggetto da assumere di un precedente rapporto a tempo indeterminato, anche se magari lo stesso si è concluso dieci anni fa….incredibile!); con fasce di età completamente dimenticate da ogni tipo di agevolazione (per gli uomini dai 36 ai 50 anni non esiste neanche l’ombra di un’agevolazione contributiva), ed in tema di agevolazioni potremmo continuare all’infinito.
CREARE LE CONDIZIONI PER DARE LAVORO
In questo quadro, dove il principale e unico problema dovrebbe essere in questo momento quello di creare i presupposti per fa sì che le aziende ricomincino ad assumere, al Ministero del Lavoro la priorità, in questo momento, è il salario minimo: ovvero ci si preoccupa di dare una retribuzione più alta dimenticandosi che prima bisognerebbe dare una retribuzione e soprattutto dare un lavoro.
Con l’attuale ordinamento normativo, la disciplina dei criteri di calcolo della retribuzione è affidata alla contrattazione collettiva, che per lo più ha garantito un livello minimo di salario soddisfacente e dignitoso. Conseguentemente, in Italia è stata scarsamente avvertita l’esigenza (già portata alla ribalta nel 2019 dal Governo giallo-verde) di garantire per legge il salario minimo fosse, come accade in molti paesi europei. Allora, ci si domanda se in una economia in costante trasformazione tecnologica e organizzativa, in un mercato del lavoro sempre più indirizzato ad una maggiore flessibilità oraria e orientato a remunerare la professionalità dei lavoratori, che senso abbia parlare di salario minimo legale. Non è vero, peraltro, che lo impone l’Unione europea, perché benché nel panorama retributivo europeo la maggioranza degli Stati membri (22 su 28) possiedono già una forma di salario minimo legale (con esclusione di Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Svezia e Italia nei quali i minimi stipendiali sono determinati dalla contrattazione collettiva). Insomma, tale istituto non ha una natura universalmente riconosciuta né esiste un unico modello di applicazione e di calcolo; coesistono, invece, vari modelli che derivano dalle esigenze economico-sociali, ma anche dalla cultura giuridico-lavoristica di ogni singolo Stato e che si fondano sul potere d’acquisto, sull’indice dei prezzi al consumo, sull’inflazione, sulla produttività nazionale e sulla situazione economica del paese, essendone, fra l’altro, sovente, affidata la determinazione all’elaborazione di commissioni indipendenti.
COME FUNZIONA IN EUROPA: 9,24 EURO LA MEDIA UE
Il salario minimo orario lordo più elevato in Europa si registra in Lussemburgo ed è pari a 11,97 euro, mentre quello più basso è previsto in Bulgaria e ammonta a 1,62 euro, l’entità del salario minimo orario è quanto mai variabile da Paese a Paese: quelli in via di sviluppo così come alcuni paesi mediterranei che escono da pesanti crisi economiche hanno salari minimi orari anche significativamente inferiori a 5 euro, mentre i paesi con economie industriali consolidate e più sviluppate si posizionano sopra i 9 euro. Il salario minimo in Francia è fissato in 10,03 euro, in Germania è pari a 9,19 euro, in Belgio è di 9.41 euro, in Olanda è di 9,33 euro, in Spagna è fissato a 6,09 euro. Le differenze nella determinazione del salario minimo all’interno dei paesi dell’Unione europea sono, quindi, di tutta evidenza, sia a livello economico-sociale complessivo (costo della vita, produttività, competitività e sviluppo), sia a livello giuslavoristico tanto in relazione alle componenti della retribuzione quanto all’orario di lavoro e, partendo da tale situazione l’individuazione di un valore monetario unico, efficace, efficiente e congruo in tutta Europa, appare pressoché utopistica. Infatti, posto che la media salariale mensile degli Stati europei è pari a circa 9,24 euro, se il salario minimo europeo fosse calcolato sulla base di base a tale media, non troverebbe mai possibilità di approvazione, in quanto determinerebbe per molti Paesi un incremento insostenibile del costo del lavoro e così la crescita del livello di disoccupazione, l’aumento del lavoro irregolare e la perdita di competitività. Diversamente, se la soglia fosse fissata a un livello decisamente più basso, gli Stati economicamente meno sviluppati manterrebbero un certo spazio di manovra per portarsi al livello stabilito, ma con il rischio di una contrattazione al ribasso per i lavoratori dei Paesi più ricchi rispetto ai Paesi che ricchi lo sono meno.
SERVONO PARAMETRI FISSI E METODI DI CALCOLO
Ragionando in un’altra ottica, si potrebbe allora immaginare il salario minimo non come un valore preordinato, ma come un valore da determinarsi per il tramite di un sistema che individui, per tutti, alcuni parametri fissi e una metodologia di calcolo in ragione del livello economico-sociale e del costo del lavoro di ciascun Paese. Sono proprio i Paesi caratterizzati da un’elevata copertura della contrattazione collettiva ad avere una minore percentuale di lavoratori a basso salario, una minore disuguaglianza salariale e salari minimi più elevati.
Nell’attuale ordinamento normativo italiano la disciplina degli aspetti quantitativi e dei sistemi e criteri di calcolo della retribuzione è affidata alla contrattazione collettiva che, integrata dall’autonomia individuale, comunque vincolata ai principi costituzionali di proporzionalità e sufficienza, e operante in chiave migliorativa, ne costituisce la fonte largamente preminente, assolvendo al compito di garantire, soprattutto per i lavoratori professionalmente meno qualificati, un livello minimo di salario soddisfacente e dignitoso. Al riguardo, è utile rilevare che l’Inps dichiara che i Ccnl presenti nel suo archivio per i dipendenti del settore privato hanno un livello di copertura estremamente elevato: coprono, infatti, un totale di 1,5 milioni di datori di lavoro (il 99 per cento delle aziende presenti in Italia) e di 14,7 milioni di lavoratori (pari al 97,6 per cento della forza lavoro impiegata nel settore privato). Del resto, l’interpretazione giurisprudenziale dell’arti colo 36 della Costituzione ha finito per riconoscere ai trattamenti economici stabiliti dai contratti collettivi (cosiddetti minimi tabellari), pur carenti di vincolatività erga omnes, la natura di retribuzione “costituzionale”, tanto che in Italia è stata scarsamente avvertita l’esigenza che il salario minimo fosse, come accade in molti altri ordinamenti giuridici europei, garantito per legge.
LE ALTRE VOCI CONTRATTUALI: DALLA QUTTORDICESIMA AI PERMESSI
Del resto, il livello retributivo italiano non è espresso e declinato solo dai minimi contrattuali per livelli di inquadramento, ma è caratterizzato da numerose voci variabili che contribuiscono a rendere assai disomogeneo il panorama salariale e che devono necessariamente essere considerate nell’ottica dell’introduzione del salario minimo legale, dovendosi esplicitare cosa ricomprendere nel valore fisso determinato per legge: si pensi alle mensilità aggiuntive, ossia tredicesima e quattordicesima, al trattamento di fine rapporto (tfr), alle ferie, ai permessi retribuiti, a tutta la retribuzione variabile di tipo premiale, ma anche alla contribuzione previdenziale e alla tassazione la quale, dipendendo dal reddito complessivo, è soggettivamente variabile.
IN ITALIA COSTO EXTRA DI 6,7 MILIARDI A CARICO DELLE AZIENDE
Ebbene, nella difficile ricerca di un giusto valore salariale minimo è doveroso ricordare che la determinazione di una tariffa troppo alta potrebbe scoraggiare la domanda di lavoro e/o rappresentare un incentivo al lavoro irregolare, mentre una troppo bassa finirebbe per non garantire le condizioni di vita dignitose alle quali l’istituto è finalizzato. Secondo l’Ocse, fissando la soglia del salario minimo legale a 9 euro lordi l’ora, il livello retributivo italiano diverrebbe uno dei più elevati fra i Paesi membri, con potenziali gravi ripercussioni e costi assai elevati: i lavoratori italiani coinvolti nell’incremento salariale risulterebbero, infatti, pari a 2,9 milioni, con un aumento retributivo medio annuo di 1.073 euro, con un incremento complessivo del valore di 3,2 miliardi e un costo totale per le aziende stimato attorno ai 6,7 miliardi.
DUBBI SULL’UTILITÀ DEL “MINIMO”
Tale aumento del costo del lavoro avrebbe un impatto negativo principalmente sulle piccole e medie imprese, riducendone drasticamente la competitività soprattutto nei mercati internazionali; gli effetti negativi potrebbero essere, invece, più contenuti per le imprese di grandi dimensioni, tendenzialmente più solide e con maggiori disponibilità economiche. Pur stabilendo un valore più congruo, l’introduzione del salario minimo legale solleva, in ogni caso, molti dubbi sulla sua reale utilità.
Come già detto, nel contesto di una economia in costante trasformazione tecnologica e organizzativa, in un mercato del lavoro sempre meno ancorato a schemi tradizionali e standardizzati e sempre più indirizzato, pur nella forma comune della subordinazione, ad una maggiore flessibilità oraria e agilità delle modalità con le quali si rende la prestazione lavorativa, oltre che sempre più orientato a remunerare la professionalità dei lavoratori piuttosto che le qualifiche definite dai contratti collettivi attraverso premi di risultato anche convertiti in beni e servizi di utilità sociale ricompresi nel welfare aziendale, la misurazione del trattamento economico complessivo è sicuramente molto complicata. In un mercato del lavoro sempre più orientato a remunerare la professionalità piuttosto che le qualifiche definite dai contratti collettivi, rischia di rappresentare una misura anacronistica rischiando, non essendo in grado di incidere autonomamente sulla riduzione della povertà che necessita di ulteriori variabili quali il livello di occupazione, la produttività del lavoro, ma anche le politiche di sostegno al reddito delle famiglie. Del resto, nei paesi che hanno già introdotto il salario minimo legale la questione dei lavoratori sottopagati e la diffusione di pratiche illegali sono, purtroppo, ancora presenti e, ciò nonostante, l’incremento dei controlli tecnologici sui dati stipendiali fino ad arrivare all’applicazione di pratiche come il name and shaming con cui si denunciano pubblicamente le aziende che non rispettano i minimi salariali legali.
Sempreché, nel frattempo, il salario minimo legale non ci venga imposto dall’Unione europea, alla quale però si potrebbe ribadire che, se è vero che è già presente in ben 22 paesi dell’Unione europea, è altrettanto vero che, nei paesi in cui non esiste un salario stabilito dalla legge: Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Italia e Svezia, la stragrande maggioranza dei lavoratori è tutelata attraverso la vigenza dei contratti collettivi. Inoltre, non sarebbe privo di conseguenze il fatto che l’adeguamento dei minimi più bassi ai 9 euro orari introdotti dalla legge, avrebbe la conseguenza di comprimere i differenziali salariali tra i beneficiari del provvedimento e gli altri lavoratori inquadrati ai livelli immediatamente superiori; con conseguenti rivendicazioni ed ulteriore aumento del costo del lavoro.
IL RISCHIO DELLA CRESCITA DEL LAVORO SOMMERSO
In definitiva, a qualunque livello fosse fissato, un salario minimo in Italia inciderebbe, in misura particolare, sulle piccole e piccolissime imprese del Mezzogiorno; con conseguenze che non è difficile immaginare: riduzione di manodopera oppure, in alternativa, ulteriore ricorso al “sommerso”. Viceversa, un impatto positivo potrebbe avere il salario minimo nel “tutelare” tutti quei lavoratori, sottopagati e/o particolarmente “precari”, che oggi non rientrano tra i subordinati, in particolare alle finte partite Iva e a quelle tante (false) “collaborazioni” che, in effetti, nascondono veri e propri rapporti di lavoro dipendente e che non sono tutelati dai Contratti Collettivi. A maggior ragione, in un paese come l’Italia, in cui persistono fenomeni degenerativi cui pare impossibile riuscire a porre freni – i più alti indici, tra i paesi dell’Unione europea, di evasione fiscale, contributiva e lavoro sommerso – l’eventuale determinazione di un salario legale troppo elevato correrebbe il concreto rischio di determinare, esclusivamente, ulteriore ricorso al lavoro nero e/o grigio; senza, peraltro, produrre benefici per quelle migliaia di lavoratori con contratti “pirata” o, addirittura, senza alcuna apparente garanzia contrattuale.
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