«Più che parlare di salario minimo si dovrebbe parlare di “adeguamento delle voci che definiscono il minimo salariale” in linea con la Direttiva europea. La struttura della retribuzione in Italia non è pensata in funzione di una “tariffa oraria” diversamente da altri Paesi europei, ma da diversi valori che hanno lo scopo di valorizzare la produttività, la flessibilità organizzativa, del welfare contrattuale e della bilateralità. Il dibattito sul salario minimo, infatti, ha messo in evidenza come la pluralità di definizioni delle retribuzioni complica la lettura comparata dei testi contrattuali oggi in vigore. In pratica siamo in assenza di condivisione sui criteri di calcolo delle voci retributive che concorrono a definire il salario minimo. Emerge l’urgenza di creare un metodo condiviso ed univoco di selezionare le voci che definiscono il minimo salariale adeguato a quanto previsto dalla direttiva». Lo scrive il consigliere nazionale di Unimpresa, Marco Pepe, in un documento pubblicato sul sito dell’associazione, tornando sul tema del salario minimo «al fine di approfondire ulteriormente la tematica sollevata dalle opposizioni ormai da molti mesi». Secondo Pepe «il dibattito, oggi riportato in Commissione Lavoro alla Camera dei Deputati, dovrebbe quindi tener conto non di un mero e semplicistico calcolo 9€ si 9€ no, ma di produrre una indicazione certa su quali debbano essere le voci di calcolo della retribuzione su cui i futuri rinnovi contrattuali dovranno basarsi in modo univoco su tutto il territorio nazionale tenendo conto di valorizzare la produttività, la flessibilità organizzativa, il welfare contrattuale e la bilateralità. È ormai chiaro a tutti che il sistema di contrattazione collettiva di livello nazionale di categoria supera più o meno ampiamente la soglia dei fatidici 9 euro all’ora. Forse, finalmente potremo assistere ad un salto di qualità, da più parti auspicato, di un sistema di nuove relazioni industriali basato in partenza su dati certi, univoci che consentano alle imprese di avere certezze sui propri investimenti e, non ultimo, creare le condizioni certe ai futuri investitori di produrre in Italia anziché altrove; rendere interessante investire nel nostro Paese».
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