di Giovanna Ferrara, Presidente Unimpresa
C’è qualcosa di profondamente inquietante nella piega che sta prendendo la politica economica americana sotto la guida di Donald Trump. Non è una sorpresa: l’ex presidente, oggi di nuovo candidato in corsa, non ha mai fatto mistero della sua visione protezionistica, muscolare, sovranista. Lo ha detto, lo ha ripetuto, lo ha quasi urlato durante la sua prima campagna elettorale. E ora, coerente con quella promessa, ha deciso di aprire una vera e propria guerra commerciale. Non contro un Paese specifico, ma contro l’idea stessa di interdipendenza globale. Il problema, semmai, è nostro: possibile che ci sorprenda ancora?
L’Europa sembra essere rimasta prigioniera di un’illusione, quella che le parole siano una cosa e i fatti un’altra. Ma con Trump, le parole – per quanto sgrammaticate – diventano sempre fatti. E i dazi annunciati, applicati e rivendicati rappresentano l’architrave di una strategia che, in nome del primato americano, rischia di innescare una spirale di ritorsioni pericolosa, in un mondo già attraversato da instabilità geopolitiche, riallineamenti strategici e fragilità economiche. Non si tratta di una boutade elettorale, né di una sparata propagandistica da liquidare con sufficienza.
Certo, qualcuno potrebbe legittimamente pensare che il tycoon stia bluffando, come fa ogni negoziatore aggressivo: sollevare il tono, spaventare l’interlocutore, per ottenere qualcosa di meno ma senza arretrare. Ma se anche fosse così, questo stile relazionale non è privo di conseguenze. Al contrario, è proprio in questo approccio – cinico, imprevedibile, egocentrico – che si nasconde il germe di un disordine sistemico. Se Trump vuole sostituire il disordine globale con un suo ordine personale, costruito attorno agli interessi americani più retrivi, il mondo deve preoccuparsi. E l’Europa, soprattutto, deve smettere di illudersi.
Il segnale che qualcosa non va è arrivato dagli stessi Stati Uniti. La Borsa americana ha registrato un crollo secco del 10% in sole 48 ore. Non è un movimento fisiologico, né un aggiustamento passeggero. È una sfiducia. È il mercato che reagisce a una visione miope, autarchica, incapace di cogliere la complessità delle catene del valore e dei flussi economici globali. Possibile che lo staff economico di Trump – non privo di teste lucide – non avesse previsto una simile risposta? Oppure siamo di fronte a una strategia in cui le perdite immediate sono accettabili, pur di imporre la propria narrativa politica?
In questo contesto, l’Europa – e l’Italia in particolare – ha il dovere di prendere una posizione chiara. Non basta auspicare un dialogo. Non serve invocare canali diplomatici se le misure sono già state adottate. Quando i dazi sono in vigore, quando i mercati hanno già reagito, quando gli effetti si manifestano sulle nostre esportazioni, continuare a parlare di «dialogo aperto» significa non voler vedere la realtà. E la realtà è che ci troviamo di fronte a una strategia aggressiva, che richiede contromisure serie, coordinate, responsabili. l nostro governo dovrebbe evitare il riflesso pavloviano della ritorsione sterile, ma nemmeno può restare alla finestra. Illudersi che Trump, una volta rieletto, torni a più miti consigli, è un grave errore di calcolo. Il tempo delle attese è finito. Serve una postura europea più assertiva, un coordinamento tra le cancellerie del continente, una visione industriale e commerciale comune. In gioco non c’è solo la tenuta dei mercati, ma il ruolo stesso dell’Europa in un mondo che cambia.
La lezione è chiara: l’America di Trump non vuole più essere il pilastro del multilateralismo. E forse non vuole più essere nemmeno prevedibile. Prendiamone atto. Prima che il nuovo ordine si trasformi in un definitivo disordine.
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