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Un lavoro sottopagato non è mai una buona scelta per nessuno

La marginalità del lavoro

di Marco Massarenti, Consigliere nazionale Unimpresa Sanità e Welfare

“Con 750 euro non ci vivo, smettiamola di accettare paghe da fame; nel lavoro dobbiamo smetterla di abbassare l’asticella”. È così che si sfoga, attraverso un video pubblicato sui social, una giovane ingegnera dopo aver ricevuto un’offerta di lavoro a dir poco sotto la soglia della povertà che offende la sua professione e professionalità.

Secondo il suo punto di vista in Italia la mentalità è tale per cui anche quegli imprenditori che possono permettersi di pagare di più i propri dipendenti si combinano alla tendenza generale. Di conseguenza per venirne a capo chi ha la fortuna di potersi accontentare, è il primo che deve rifiutare altrimenti ci si trova involontariamente catapultati in un vortice senza uscita per cui, coloro i quali, per esigenze personali, non possono rifiutare, si trovano costretti ad abbassare l’asticella.

Un lavoro sottopagato non è mai una buona scelta per nessuno. È questo il concetto che deve attraversare le menti di chi pratica l’arte dell’accontentarsi e di chi svolge quella dell’accontentare; ambo le parti, lavoratori e offerenti lavoro, devono far loro il concetto secondo cui il lavoro è un diritto e in quanto tale per essere svolto con efficienza deve essere dignitoso.

È fondamentale una conversione della forma mentis dei liberi professionisti i quali spesso, soprattutto ad inizio carriera, sottovalutano il valore dei propri servizi tralasciando i costi che devono sostenere pur di lavorare. Anche se per alcuni versi potrebbe essere un atteggiamento molto comprensibile in verità non è questa la maniera ideale per dare il via ad una carriera di spessore ma è un modo per mettere in difficoltà altri professionisti che invece non intendono sottostare.

Calcolando una media generale il costo orario per la prestazione di attività professionale si aggira intorno ai 30 Euro orari (somma puramente indicativa) che non sempre viene per l’appunto rispettata. Esistono realtà, nella stessa regione d’Italia, in cui la stessa attività a pari merito di professionalità viene retribuita della metà, ma chi possiede la giusta esperienza e le giuste competenze deve, per diritto verso sé stesso, poter chiedere il giusto, senza considerarsi un approfittatore. Il lavoro professionale è un lavoro di tipo intellettuale e come tale deve essere riconosciuto. Come non essere d’accordo con la giovane lavoratrice che ha sollevato il problema, alla quale sono stati offerti 8 euro all’ora quando sa che per diritto dovrebbe averne ancora più della metà?

Potrebbe essere che buona parte dell’ottima salute di molte imprese italiane derivi da una forza lavoro che è pagata la metà di quanto sia pagata nel resto d’Europa e non del tutto rispettosa delle regole relative ai compensi previsti dal CCNL?

Dove il costo del lavoro è accessibile e i lavoratori sono pagati nel giusto, le aziende funzionano meglio; ciò sta a dire che la questione è puramente italiana; qui il costo della vita è simile a quello di paesi nordeuropei ma la retribuzione nettamente inferiore.

Secondo l’Ocse, gli stipendi italiani sono tra i pochi europei che non sono cresciuti negli ultimi trent’anni; causa la stagnazione del PIL e della produttività, la struttura economica nazionale, le condizioni di mercato del lavoro ma anche la becera cultura del “dover necessariamente sfruttare il sfruttabile”, laddove gli emolumenti dirigenziali sono grassi e corposi a dispetto di quelli scheletrici dei collaboratori. Ciò potrebbe spiegare perché le retribuzioni dei lavoratori sono inchiodate da anni e perché i giovani nostrani dopo una formazione di qualità finanziata dai contribuenti italiani, se ne vanno all’estero “a fare carriera”. Il motivo non è referenziabile solo all’arricchimento del curriculum vitae ma al guadagno dignitoso e soprattutto equiparante la professione svolta.

Il Rapporto del Consiglio Nazionale dei Giovani, in collaborazione con Eures dichiara che il 42% degli intervistati ha affermato di dover affrontare criticità sul lavoro; oltre la metà di loro lavora con contratti atipici o con partita Iva (altra piaga del sistema ) mentre uno su tre non ha avuto nessun contratto.

Secondo un’analisi svolta dall’Inps, volta a evidenziare la debolezza contrattuale riservata alla iuvenes vectis l’incidenza dei contratti a tempo determinato è doppia o anche di più rispetto a quelli a tempo indeterminato; si tratta di una differenza del 13 % circa calcolando che il 14% lavora con un contratto a tempo determinato, il 12% con tirocini, l’8% a collaborazioni occasionali e l’11% a forme di lavoro autonomo.

È il precariato quindi a definire il quadro lavorativo dei giovani in un’Italia che nonostante le grandi trasformazioni dei processi produttivi degli ultimi anni, sul mercato del lavoro continua a generare marginalità. La condizione di precarietà diffusa demotiva i ragazzi non consentendo loro alcun progetto di vita a medio-lungo termine.

Sarebbe bene che liberi professionisti, lavoratori autonomi e collaboratori esterni con adeguata esperienza, che spesso si trovano a dover decidere se accettare o meno un lavoro a poco, con assennatezza, per evitare di creare ancora altri precedenti di difficile destrutturazione, decidessero di non arrendersi ad un lavoro sottopagato perché guardando alle evidenze e alle attuali condizioni è sempre preferibile imporsi come professionista.

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