In un momento in cui la crisi colpisce il tessuto produttivo, diviene allora un’urgenza assoluta tutelare l’imprenditore onesto.
L’idea lanciata in questi giorni e che sta riscuotendo vasta eco, di mettere a punto un rating antimafia (in sostanza, un giudizio sulla legalità delle imprese) per le aziende (non solo del Sud) che adottano codici anticorruzione e denunciano il racket delle estorsioni, ritengo che sia un’iniziativa lodevole e che va sostenuta.
È arrivato il momento di concedere alle imprese coraggiose un rating più alto per lo stesso know how acquisito nella creazione e nella applicazione di solidi modelli aziendali improntati a principi etici. Significa aiutarle nella battaglia quotidiana della legalità. E permetterebbe di punire quelle realtà colluse con la criminalità.
Non sarebbe un regalo e nemmeno un privilegio, ma sarebbe la dimostrazione della vicinanza dello Stato, delle istituzioni a quelle forze economiche, a quegli imprenditori che hanno scelto la legalità come strada dello sviluppo.
Il nodo della questione è però legato all’individuazione di chi dovrebbe assegnare, e come, il rating antimafia?
Il modello di riferimento può essere quello degli indici etici che già esistono per le società quotate in Borsa. Come nel resto del mondo, anche Piazza Affari si è dotata di questi codici (Ftse Ecpi Italia, il Ftse4Good e il Dow Jones Sustainability). Tali strumenti servono per filtrare le società che operano in settori come alcol, tabacco, armi, pornografia e gioco d’azzardo. E permettono di valutare, attraverso i criteri ESG (Environmental, Social and Governance) quanto le società si impegnano su tematiche legate all’ambientale e al sociale. Segno che i requisiti di maggior trasparenza e responsabilità interessano anche chi investe. C’è infatti un aspetto più semplicemente finanziario da non sottovalutare.
Così come si è costruito un meccanismo con cui gli analisti monitorano gli aspetti sociali delle società guidate, lo stesso si può fare per assegnare un rating di legalità alle aziende. D’altro canto, la legalità si può misurare: basta, ad esempio, controllare le condanne dei vari responsabili delle società, i certificati antimafia, premiare coloro che contribuiscono fattivamente alle associazioni antimafia, che denunciano racket e usura, e così via.
Individuati i criteri “virtuosi”, si renderà poi necessario prevedere una verifica costante delle società e delle imprese, per seguirne tutte le evoluzioni. Penso a una “certificazione dinamica”, che non ingessi il sistema in uno schema di white list e black list.
Un indice di legalità rappresenta, dunque, una sorta di certificazione di qualità sull’impegno di un’azienda nella lotta alla criminalità e un riconoscimento alla sua attività all’interno di un sistema condiviso di regole.
Ciò significa che l’inserimento negli indici di legalità, ovvero l’attribuzione di un rating, può rappresentare per una società una sorta di bollino di qualità delle sue pratiche quotidiane, del suo modo di competere, della correttezza negli affari, in pratica un riconoscimento della sua reputazione.
Il mercato, tra l’altro, sta cominciando ad accorgersi della valenza di un’analisi delle società che non si limiti alla pura tecnica finanziaria. Secondo l’ultimo rapporto di Eurosif (European Sustainable Investment Forum) gli investimenti sostenibili in Europa stanno registrando una crescita esponenziale negli ultimi anni. A livello globale nel 2010, i risparmi gestiti da prodotti “etici” hanno raggiunto la quota di 10mila miliardi di dollari. Ed erano soltanto 2,6 miliardi nel 2002.
Mi chiedo, allora, perché le banche non possano fare altrettanto. Altro nodo della questione, infatti, è la crescente difficoltà di accesso al credito che stritola le piccole e medie imprese, che non possono contare sulla liquidità “facile” della malavita. Un rating creditizio modulato anche sull’impegno antimafia può invece favorire le imprese che adottano codici etici e far diventare conveniente anche sul piano economico il contrasto alla criminalità, temperando la rigidità dei criteri imposti da Basilea 2. Il primo passo in questa direzione sarà quello di creare un protocollo fra imprese, settore bancario, forze sociali e istituzioni che premi le aziende che si impegnano per la legalità.
Paolo Longobardi, presidente Unimpresa
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